Hikikomori e pandemia: un esercito di reclusi destinato ad aumentare

Facendo un bilancio dell’ultimo anno si può affermare che l’assetto della società sia radicalmente cambiato, e malgrado le innumerevoli resistenze, non si potrà più tornare alla modalità pre pandemia.

Le imposizioni subite dal lockdown da marzo scorso ad oggi, hanno innescato dei comportamenti nuovi che inizialmente sembravano strani ed alienanti, ma che oggi sono diventati la normalità più assoluta. L’uso dei dispositivi elettronici, l’accesso costante alle piattaforme di streaming, PC e consolle, il conseguente distanziamento dalle pressioni lavorative e scolastiche, in molte persone hanno fatto inizialmente sperimentare una piacevole sensazione di tranquillità.

Chi aveva delle fragilità relazionali ha vissuto come un sollievo la costrizione di restare a casa e non come uno spiacevole obbligo da rispettare, dando origine a delle credenze positive (soprattutto nei giovani) sulla possibilità di iniziare a condurre uno stile di vita isolato, tipico degli “Hikikomori” (1) anche in società culturalmente diverse da quella che ha visto nascere questo fenomeno, e che oggi è diventato una vera e propria sindrome.

Ma chi sono gli Hikikomori? (2) Hikikomori significa ”stare in disparte” ed è un fenomeno nato in Giappone negli anni ’80; gli Hikikomori sono definiti anche “ragazzi fantasma”,  adolescenti e giovani che, a causa della pressione sociale e della insopportabile competitività presente in essa, preferiscono isolarsi totalmente. Da qualche anno anche in Italia è stata registrata un’importante crescita, le ultime stime parlano di 100-120 mila casi (3) un vero e proprio esercito di reclusi che è destinato ad aumentare se non si riuscirà a dare loro una precisa collocazione clinica e sociale.

In famiglia spesso si riscontra un padre emotivamente assente ed autoritario e un’eccessiva interdipendenza con la madre; entrambi i genitori, spesso in conflitto, faticano a relazionarsi con il figlio che rifiuta qualsiasi tipo di aiuto. E’ stato anche riscontrato in loro un ridotto senso di autoefficacia (convinzione di poter agire con azioni ben organizzate ed efficaci per far fronte alla realtà) e bassa resilienza. La scuola è il primo ambiente sociale che si vuole abbandonare, in cui si sono fatte esperienze negative (episodi di bullismo o insuccessi scolastici), poi si prosegue con disturbi d’ansia e frustrazioni pesanti tali da volersi allontanare totalmente dal contesto sociale.

Oggi, dopo un anno di distanziamento e digitalizzazione, possiamo affermare che Il fenomeno degli Hikikomori è destinato ad aumentare e a cronicizzarsi, iniziando con chi non tornerà più sui banchi di scuola e chi non vorrà più uscire anche quando la pandemia lo permetterà.

“Stanarli” non è facile e con le disposizioni pandemiche è ancora più difficile perché le varie fasi del lockdown li ha rinchiusi in casa esattamente come tutti gli altri, con la certezza che il fenomeno sia camuffato e che la loro sofferenza passi inosservata (durante il primo lockdown infatti le richieste d’aiuto da parte dei genitori sono calate di circa l′80%).

L’impatto  della pandemia è stato diverso su chi aveva scelto già da tempo l’isolamento volontario, a seconda della situazione contingente abbiamo:

  • l’Hikikomori che prima del lockdown stava reagendo ha subito una battuta d’arresto, pensando di procrastinare la ripresa della vita sociale e le cure psicologiche;
  • chi stava cercando di resistere alla tentazione di isolarsi, con il lockdown potrebbe aver assaporato i ‘piaceri’ dell’isolamento, per poi decidere di continuare anche successivamente;
  • chi infine -il caso più numeroso- non aveva alcuna intenzione di uscirne, ha visto nel suo entourage la tendenza a sottovalutare il problema per il fatto che “siamo tutti chiusi in casa”.

Non è stato considerato però il preoccupante contraccolpo psicologico, inevitabile alla conclusione definitiva dell’emergenza sanitaria, ovvero il fatto che benché molti di loro hanno tratto sollievo da una società bloccata, in quanto non si sono sentiti diversi dagli altri, successivamente, quando le persone sono tonate a vivere la propria socialità in modo libero e spensierato, gli Hikikomori hanno dovuto constatare la miseria della loro condizione, e che la loro ‘quarantena’ non è stato un periodo transitorio causato da fattori esterni ma una prigionia, fisica e mentale, che potrebbe durare anche tutta la vita. Sostanziale è la differenza della condizione psicologica tra un ragazzo che passa tutto il giorno in camera a giocare con i videogiochi perché costretto in casa, ed un Hikikomori: esattamente la stessa differenza che c’è fra l’isolamento volontario e quello forzato.

L’Hikikomori prova una solitudine non fisica ma psicologica: quella condizione soggettiva che consiste nel non sentirsi riconosciuto dagli altri, apprezzato ed accettato nella propria versione autentica, ovvero senza maschere o comportamenti dissimulati.

Come prevenire questi atteggiamenti di ritiro sociale come scelta tanto estrema quanto dolorosa? Innanzitutto individuando i soggetti a rischio sulla base dei trascorsi scolastici e delle pressioni familiari. Allentando loro le tensioni e facendoli esprimere liberamente nelle loro passioni e realizzazioni come progetti di vita, senza appiattirli e confonderli all’interno delle richieste della società, e dando loro dei punti saldi di sicurezza individuale e di gruppo. Aiutandoli a trasformare le loro esperienze, anche le più semplici, in simboli così da riuscire a pianificare avvenimenti futuri; cercare di lavorare sulle elaborazioni cognitive che portano a prevedere le loro azioni, valutando anche i propri pensieri e tenere bene in considerazione i loro standard di prestazione. In ultimo, ma non per importanza, dare loro fiducia esprimendola verbalmente e con convinzione, indurli ad essere sempre a contatto con loro stessi e con le loro sensazioni, ed essere costantemente  consapevoli dei propri stati fisiologici.


(1) https://www.psyeventi.it/articoli/la-pandemia-ha-reso-i-nostri-ragazzi-hikikomori-c9414.html

(2) https://.agi.it/cronaca/hikikomori_giovani_vivono_isolati-4961167/news/.2019-02-07/.

(3) https://www.hikikomoriitalia.it/

Pubblicato da Claudia Marrosu

Psicologa Umanistica, specializzata in età evolutiva ed adolescenza. Sociologa Organizzativista

Una opinione su "Hikikomori e pandemia: un esercito di reclusi destinato ad aumentare"

  1. Il triste fenomeno degli Hikikomori , è una delle tante conseguenze della pandemia, ma credo che vada analizzato in senso speculare. Mi spiego meglio : la pandemia ha contribuito a fare emergere questo problema, sia clinico, che sociale, che comunque già era presente ed inoltre ha accresciuto il numero degli Hikikomori. L’errore che non dobbiamo compiere è quello di considerare queste persone diverse dagli altri, o peggio ancora, come ho già riscontrato nella vulgata comune, dei pazzi. Non si tratta di soggetti che devono essere evitati, al contrario devono essere aiutati a rientrare in quel consorzio sociale dal quale, per motivi diversi, si sono estraniati. E’ ovvio che le misure restrittive adottate dalle autorità istituzionali e sanitarie, spesso senza alcun criterio, hanno favorito altri isolamenti, che stanno per diventare cronici. Conosco persone che già avevano scelto di isolarsi, perchè erano rimaste sole a causa di lutti, ovvero perchè avevano perso il lavoro, e si erano rifugiati nelle loro case, considerate come dei carapaci, il guscio nel quale si rinchiude la tartaruga, in caso di pericolo. Ricordo una frase di una persona : ” A casa mia, mi sento sicuro e protetto”. Dopo anni di supporto, sono riuscito a farlo uscire, quanto meno per riprendere una vita normale. La pandemia e quel maledetto coprifuoco, termine folle che evoca la guerra, gli ha fornito una opportunità per tornare al suo esilio volontario, ma lo ha superato. Credo che si debba lavorare anche sul tema della resilienza, che mi sembra sia stata frantumata in molti soggetti e soprattutto su quello della speranza. Chi non ha più speranza nel futuro, nella vita, non possiede nulla. M.L. King scrisse ” Se nella mia vita avrò aiutato anche una sola persona a sperare, non avrò vissuto invano”. E così dovremmo fare e affrontare il grave problema dei reclusi volontari, attraverso un supporto clinico, sociale e spirituale.

    Loris Mauro

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