Una riflessione estiva, eppure tutt’altro che leggera, è apparsa a luglio su Zygon Journal of Religion & Science [1]. L’articolo è degno di interesse per l’originale esplorazione delle interazioni esistenti tra tematiche usualmente considerate tra loro distanti: il COVID-19, la percezione del rischio, il transumanesimo, il sacramento religioso.
Nella nuova normalità il timore di contagio, da limitato a luoghi specifici e/o per alcune categorie a rischio, come è sempre stato in passato, si spinge a riguardare tutti, in ogni luogo. Trasformazione radicale che, giustificata o meno dalle contingenze (gli autori questo non lo questionano) rappresenta uno scenario sociale inedito. Al punto che, per la prima volta nella storia, sia in occasione di guerre che di pandemie, nella primavera del 2020 in (quasi) tutto il mondo, sono state interrotte le principali feste religiose: Pessach, Pasqua, Vaisakhi, Navratri, Buddha Purnima e Ramadan. Per mesi sono inoltre state proibite le normali funzioni religiose, sono stati impediti (o in alcuni paesi limitati) i riti funebri, non sono stati possibili i sacramenti cattolici, compresi il viatico per chi gravemente ammalato e l’unzione degli infermi.
Secondo gli autori, per alcuni osservatori si è trattato “dello scontro diretto tra la credenza nell’importanza dei sacramenti per la vita eterna dell’anima e la conservazione del corpo in questa vita temporale”.
Difficile dar loro torto, tanto più che nei mesi nei quali in molti paesi del mondo sono rimaste chiuse chiese, sinagoghe, moschee e templi, non essenziali, erano aperti tabaccai, negozi di alcolici e perfino armerie.
Come è noto, la nostra società ha ritenuto che i contatti sociali sono pericolosi e si è attivata per contenere il rischio derivante, proibendo ogni occasione di contatto non ritenuta strettamente necessaria. Forse meno noto è che la specifica forma che tali misure hanno assunto dipende essenzialmente dalla quantificazione del rischio, dalla percezione del controllo sul rischio che si è ritenuto di avere, e dalla priorità assegnata alle varie attività sociali. Chiaramente solo il primo aspetto si basa su criteri scientifici (matematici), mentre i secondi due sono culturalmente costruiti.
Gli autori scrivono che l’influenza culturale sulla percezione di controllo (effettivo o meno che sia) è ad esempio in grado di spiegare perché, nonostante gli statistici indichino che sia più probabile morire per i danni provocati dal fumo di sigarette che di COVID-19, sia il secondo rischio ad essere temuto, al punto che i più sono favorevoli che nel tentativo di prevenirlo la società ceda ampi margini di libertà. Al contempo, l’influenza culturale ha fatto sì che garantire ai cittadini l’approvvigionamento di tabacco e liquori sia stato ritenuto prioritario rispetto all’offrire a un moribondo i sacramenti considerati dalla sua religione necessari alla salvezza della sua anima.
Mentre le previsioni matematiche possono essere verificate e rivelarsi corrette o errate, le valutazioni culturali sono inevitabilmente soggettive. Non si può oggettivamente determinare se sia più importante garantire o limitare un servizio, poiché una tale decisione rispecchia inevitabilmente i valori soggettivi di chi la sostiene o la osteggia. La visione culturale dominante costituisce il valore di riferimento che può portare a “non poter vivere senza la domenica del Signore” (Sine dominico non possumus) come i cosiddetti martiri di Abitina, condannati a morte per avere disobbedito all’editto di Diocleziano che proibiva le celebrazioni religiose cristiane; o viceversa a ritenere inevitabile la chiusura di Lourdes, simbolo stesso della guarigione per intervento divino.
La teoria del rischio oggi dominante, nell’articolo chiamata dell’homo prudens, ritiene che ogni incidente sia dovuto a un errore, e che ogni errore possa e pertanto debba essere prevenuto. Sua logica ed estrema conseguenza è ritenere un errore la morte stessa, ogni tipo di morte, non più riconosciuta come parte necessaria del ciclo della vita.
In tal modo la visione sposa il transumanesimo che, partito dal desiderio di potenziare la natura umana con impianti tecnologici, anche esso giunge a considerare la morte come un errore, teorizza l’indefinito prolungamento della vita biologica e l’immortalità della mente trasformata in algoritmi caricati su un cloud dove vivrebbe eternamente.
Gli autori definiscono questo nuovo archetipo emergente dell’homo transhumanus e la riassumono in 5 punti:
1. Il corpo umano è considerato una macchina da mantenere e potenziare.
2. Le valutazioni qualitative sono sempre sostituite da decisione basate sui dati (data driven).
3. Gli spazi virtuali sono favoriti.
4. Mancata accettazione della morte.
5. Riluttanza ad accettare i normali rischi intrinseci all’esistenza umana.
Già adesso, applicazioni e strumenti portatili come quelli della società Fitbit, in grado di trasmettere in tempo reale informazioni sulla pressione sanguigna, la temperatura, le nostre attività fisiche e il ritmo del sonno, offrono un esempio di come, nell’emergente cultura transumana, il corpo stia diventando una macchina che può essere calibrata in modo ottimale, ad un livello che Foucault avrebbe potuto solo immaginare. Parallelamente, in nome della sicurezza e della comodità, è in corso la digitalizzazione delle nostre vite, nella forma di smart working, di didattica a distanza, di riunioni via Zoom, di costante tracciamento, di sesso virtuale, e altro.
Gli strumenti (social, app per conferenze, ecc…) esistono da tempo, come pure la tendenza alla loro ubiquità sociale. Eravamo tecnologicamente preparati e pronti a intraprendere la strada che, si potrebbe dire, la pandemia ha solo accelerato. Ma le misure intraprese a seguito del COVID-19 non stanno solo accelerando queste tendenze, bensì letteralmente rivoluzionando il modo in cui lavoriamo, socializziamo e ci relazioniamo con gli altri. Difficilmente si tratterà di cambiamenti temporanei e reversibili. Il mutato rapporto con il rischio, in combinazione con la disponibilità di tecnologie che ci consentono di interagire virtualmente, fanno facilmente immaginare che la realtà virtuale sostituirà i viaggi verso destinazioni reali o che matrimoni e lauree via Zoom diventino all’ordine del giorno. Il transumanesimo è, in questi termini, un nuovo ambiente sociale che sta cambiando la nostra relazione con il rischio biologico e quindi la nostra comprensione di noi stessi come esseri umani.
Sebbene tra scienza e religione nel tempo si siano creati numerosi punti di incontro e una convivenza è possibile, adesso che la religione deve confrontarsi con lo scenario transumanista è ancora possibile conciliare le visioni? Diversamente che nel transumanesimo, nella religione il corpo non è mai visto come fine a se stesso, la cui esistenza sia prioritaria a ogni altro aspetto, tutt’altro. Gli autori sottolineano che nella visione cristiana i sacramenti sono dei momenti di interruzione della nostra realtà temporale che consentono la connessione tra il visibile e il divino; aspetti fondanti che non possono essere riconducibili al solo valore di rito e il cui valore non può essere sminuito senza snaturare il Cristianesimo stesso.
Se agli occhi di ateo, o di un fedele di religioni che non prevedono sacramenti, la loro proibizione sembra sensata e inevitabile, lo stesso non può essere agli occhi di un cristiano. Il suo mancato riconoscimento sociale dovrebbe offrire un momento di riflessione sui misteri cristiani, affinché la nostra civiltà tecnologica eviti di essere sopraffatta da hybris e si precluda in tal modo la capacità di partecipare al trascendente.
Fin qui le riflessioni degli autori, cui rimando anche per tutti i riferimenti. Concludendo, vorrei portare la loro riflessione oltre la prospettiva cristiana, e anche religiosa, riconducendo la dimensione trascendente a una più generica prospettiva spirituale, poiché la prospettiva transumanista è antitetica alla spiritualità stessa, per sua natura trascendente. La questione non riguarda unicamente i fedeli che hanno visto i loro sacramenti essere considerati meno importanti del tabacco – o che magari perfino loro stessi sono giunti a considerare in tal modo; qui lo scontro si manifesta tra una visione della vita iper-materialista e una prospettiva trascendente, e questa visione riguarda tutti noi.
- Fonte: Norman, Z., & Reiss, M. J. (2020). RISK AND SACRAMENT: BEING HUMAN IN A COVID‐19 WORLD. Zygon®, 55(3), 577–590. https://doi.org/10.1111/zygo.12618
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Il tema, affrontato in questo articolo, è molto interessante e pone una questione di grande spessore, culturale, teologico e scientifico. Io penso che, la pandemia Covid 19, abbia messo in evidenza, ancora una volta, la paura atavica di morire. E quindi, sorge spontanea la domanda : viene prima il corpo, oppure la nostra Anima ? La paura che si è rapidamente diffusa, tra le persone, comprese quelle credenti, dimostra che è il corpo l’elemento dominante. La ricerca di una medicina che ci possa guarire dalla malattia, l’isolamento sociale, la caccia agli untori, sono manifestazioni della paura di morire. Ma io credo che la vera medicina, sia quella di ascoltare la nostra Anima, di pensare, non solo a noi stessi, ma anche al prossimo. ” Fate bene fratelli, fatevi del bene”. Questa è la stella cometa che va seguita, per dare un significato alla nostra esistenza. E’ cristiano chi cade e si rialza, ed aiuta coloro che sono caduti a rialzarsi.
Loris Mauro
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